Camminando accanto ai malati: Intervista a don Tiziano Soldavini
Vi è mai capitato di pensare all’importanza del ruolo svolto all’interno
delle strutture ospedaliere e sanitarie in generale dai cappellani, e
da quanti li assistono nell’accompagnamento dei sofferenti? Non si
tratta certamente di un ruolo semplice, anche perché i continui tagli
alla Sanità nel nostro Paese penalizzano in primis tutte le spese che
non siano giudicate assolutamente imprescindibili; il personale è andato
via via diminuendo, e questo vale anche per quanti prestano la loro
opera non direttamente come medici o infermieri. Nella sola Roma
esistono una trentina di strutture ospedaliere pubbliche, e più di
duecento strutture private (tra cliniche e case di cura). I sacerdoti e
laici impegnati nell’applicazione pratica della pastorale della salute
si trovano di fronte ad un compito enorme, tanto più che le famiglie dei
malati – contrariamente a quello che sarebbe auspicabile - finiscono
con il potere esercitare soltanto in minima parte la loro funzione di
sollievo dei loro malati. In questo contesto, la pubblicazione lo scorso mese di maggio, del libro “Invisibili Uomini persi Amici miei”
per i tipi di Intermedia edizioni, da parte di don Tiziano Soldavini,
che per anni (fino al settembre 2011) è stato cappellano presso
l’Ospedale Spallanzani (Istituto Nazionale per le Malattie Infettive)
non costituisce soltanto una testimonianza preziosa, ma uno stimolo per
tutti, e a maggior ragione per noi credenti, a riflettere su alcuni
aspetti ai quali non pensiamo più. Ecco perché, dopo avere riletto il
libro più volte, mi sono messa in contatto con lui e desidero proporvi
un breve resoconto della nostra lunga conversazione:
“Don
Tiziano, dalle pagine del Suo libro emerge con molta forza l’immagine di
un dolore indicibile, e si avverte l’incapacità del nostro sistema di
farvi fronte in modo adeguato. In base alla Sua lunga esperienza
all’Ospedale Forlanini, che costituisce una punta di diamante nella
lotta a tutti i tipi di malattie infettive, e in particolare all’AIDS,
si può dire che nell’ultimo decennio si è assistito ad un progresso nel
fronteggiare la malattia?” «Dobbiamo distinguere. Sotto il
profilo medico, sicuramente il progresso c’è stato. A livello umano
invece no. Ci si volta dall’altra parte di fronte alla sofferenza e al
dolore. Specie quando si parla di malattie infettive, e in particolare
di sieropositività e di AIDS, continua a esserci distacco, anzi, un vero
e proprio rifiuto. Questo perché le persone che contraggono l’AIDS
provengono in buona parte da realtà di emarginazione, e la gente ha il
cuore chiuso. Bisogna anche dire che c’è ancora molta ignoranza, e
sebbene in effetti ormai si sappia benissimo quali sono le vere cause di
contagio, le persone sane istintivamente si allontanano. Direi di più:
l’allontanamento si verifica anche nei confronti di quei pazienti che
contraggono la malattia in modo che non ha niente a che vedere con il
sesso o la droga: mi riferisco, ad esempio, a chi si ammala a seguito di
trasfusione accidentale con sangue infetto.»
“Dal suo
libro emergono con forza le motivazioni e i sentimenti dei malati, come
Stella o Joy, sia nei confronti dei sani, sia soprattutto rispetto alla
propria malattia. Qual è la reazione di fronte all’infezione da parte di
chi la contrae a seguito di trasfusione?” «In questi casi è
molto forte il senso di “maledizione”, di ribellione e di rifiuto. Il
malato si trova in una situazione sconfortante, perché si sente vittima
di una condizione disperata per la responsabilità di altri. E poi
subentra la vergogna: vergogna di fronte alla moglie, al marito, ai
figli, agli amici... Il malato non si toglie di dosso il senso che gli
altri sospettino di lui, per avere contratto una malattia in qualche
modo infamante. Queste persone, soprattutto quando lontane da una
qualsiasi fede, si trovano in una situazione di solitudine profonda, ed
hanno bisogno di grande amore da parte di chi li circonda».
“Un ospedale come lo Spallanzani ha un servizio di assistenza psicologica adeguato a queste esigenze?” «Assolutamente
no. La psicoterapia di sostegno è molto carente. Di fronte a, diciamo,
una media di 100 malati di AIDS (per non parlare delle altre malattie),
gli psicologi del servizio ospedaliero sono troppo pochi. Non c’è
proprio possibilità di garantire un accompagnamento adeguato, e questo
nonostante la buona professionalità degli operatori. Ma, soprattutto,
quello che ho sperimentato non solo allo Spallanzani, ma anche in altre
realtà sanitarie, la situazione è peggiorata dall’impossibilità di
strutturare un vero e proprio lavoro di équipe. Il medico fa il suo;
l’infermiere fa il suo; lo psicoterapeuta interviene quando chiamato…
ciascuno svolge il proprio ruolo, ma in assenza di coordinamento. Così i
risultati sono ridimensionati per forza di cose. ».
“Come
si colloca il cappellano in questo contesto? E, soprattutto, riferendomi
alla Sua esperienza, cosa accade nel rapporto con malati non
cattolici?” «Il malato cattolico può contare sul proprio
sacerdote; la situazione è diversa per quanti professano una religione
diversa, per i quali non è prevista in Italia la presenza di una
assistenza spirituale-religiosa corrispondente. Gli ospedali non hanno
alcuna considerazione per la professione religiosa dei pazienti. E siamo
chiamati a intervenire noi cappellani; in questi casi, di solito il
malato ha piacere di entrare in rapporto con il cappellano cattolico non
in quanto presbitero, ovviamente, ma in quanto uomo di Dio. ».
“C’è posto per il volontariato?” «Il
volontariato purtroppo è ridotto all’osso. Allo Spallanzani potevamo
contare su membri della Comunità di S. Egidio e sulle Suore della beata Teresa
di Calcutta. Poi c’era qualche altra piccola realtà personale, che però
interveniva accanto ai malati in prossimità delle feste di Natale e
Pasqua. Ma quello che serve nell’accompagnamento dei malati gravi (non
mi piace usare la definizione “terminali”) è una continuità affettiva.
L’intervento durante le feste in realtà va scoraggiato, se poi gli
stessi malati vengono lasciati soli nel resto dell’anno, per non parlare
del deserto dei mesi estivi, quando l’ospedale è pieno di malati ma si
svuota del tutto di volontari. C’è comunque da dire anche che ottenere
il permesso per esercitare il volontariato all’interno di un ospedale
specializzato in malattie infettive come è lo Spallanzani implica delle
procedure particolari, un po’ più complicate: la burocrazia appesantita
non aiuta.».
“Ho conosciuto altri cappellani, che mi
parlavano comunque di difficoltà crescenti nell’esercitare il proprio
ufficio all’interno delle strutture sanitarie, legate alle scelte
politiche del Paese. Questa è anche la Sua esperienza?” «Sì.
Prima di lavorare allo Spallanzani sono stato il primo cappellano
dell’Ospedale di Tor Vergata, quindi mi sono confrontato con la
necessità di dare inizio alla cappellania; ho potuto sperimentare
situazioni di difficoltà soprattutto nelle relazioni con il personale
ospedaliero, più che con i malati o le loro famiglie. Non dobbiamo
dimenticare che per un cappellano il dialogo con il personale
dell’ospedale in cui opera è parte fondamentale dl proprio lavoro. Il
suo ruolo di assistenza spirituale si estende necessariamente anche a
loro. Purtroppo la società di oggi cammina verso una scristianizzazione,
e questo implica difficoltà crescenti proprio in questo settore. Ad
esempio, mi sono trovato nella necessità di prendere la penna e scrivere
al Dirigente dell’ospedale per segnalare il fatto che un infermiere
iniziava a bestemmiare tutte le volte che mi incontrava,
indipendentemente da dove ci trovassimo all’interno dell’ospedale e di
chi fosse presente. D’altra parte c’era anche un medico che si
presentava a fare la visita nelle corsie tutte le volte che io mi
trovavo lì per amministrare l’Eucarestia ai malati, a qualsiasi
ora…D’altro canto, per fortuna sono testimone anche delle lotte
affrontate da un primario per potere appendere il Crocifisso nelle varie
corsie. Comunque, la situazione è delicata; per questo il nostro dovere
è quello di avvicinarci al personale con la massima attenzione, nel
rispetto delle convinzioni di ciascuno, per potere instaurare un dialogo
basato sul rispetto reciproco, in modo da evitare il pericolo di essere
allontanati. “Rispetto” è la parola chiave: è l’unico modo in cui si
può evitare che i pazienti, da persone, diventino esclusivamente dei
numeri. Rispetto della dignità personale. E questo lo si ottiene con
pazienza, perseveranza, e amore. Le difficoltà sono via via maggiori
perché anche i cristiani si nascondono, invece di testimoniare. ».
“Qui
veniamo alla domanda cruciale: la comunità cristiana come dovrebbe
affrontare questa realtà terribile di malattie e di emarginazione? Come
affiancarsi al vostro operato per alleviare la solitudine ?” «I
credenti hanno un ruolo stupendo da svolgere. Cristo è Amore, Cristo è
Misericordia, la Misericordia di Dio: l’Amore viene prima della Parola.
L’Amore è accoglienza, gioia, fraternità. Cristo nell’incontrarci ci
cambia la vita, e non dobbiamo temere di farcela cambiare. La
“Cristo-terapia” ci fa affrontare la vita in maniera del tutto nuova, ci
rende forti, capaci di affrontare le difficoltà, capaci di portare
amore vero al nostro prossimo. In tutte le realtà di emarginazione, la
Cristo-terapia ci aiuta: dobbiamo intervenire dando all’altro il nostro
aiuto, come sappiamo fare; il reciproco aiuto trasmette gioia, ed è la
vera risposta alle situazioni di povertà, di abbandono psicologico.
Dobbiamo fare sentire agli altri la presenza “Altra” che cambia la vita
di ognuno di noi. Debolezza, fragilità sono guarite continuamente dalla
Sua infinita Misericordia e dal Suo Amore.».
“E infatti nel
Suo libro Lei ricorda in particolare alcuni casi di guarigioni di
bambini pure in situazione di estremo degrado ed abbandono” «Sì.
Perché la guarigione dalla disperazione e dalla solitudine incomincia
dalla “guarigione” del cuore dell’altro. E questo è vero sempre e
comunque, in tutte le realtà di emarginazione. Non dobbiamo nasconderci o
avere paura di donare amore. Come cristiani questa è la nostra
missione, che dobbiamo svolgere con gioia. Non passa giorno che io non
sperimenti questa gioia.»
“Il libro è uscito solo
quest’anno, a una certa distanza dalla fine del Suo compito allo
Spallanzani. Ma so che da questa esperienza sono nate – o stanno
nascendo – nuove realtà di aiuto intorno a Lei…” «Il libro è
stato pubblicato quest’anno, ma in realtà io l’avevo scritto quando
ancora ero allo Spallanzani. Ovviamente ho cambiato i nomi dei pazienti,
per rispettarne la privacy. Gli incontri al reparto di Post-Acuzie non
possono non segnarti la vita, se il tuo cuore non è indurito. Ma i
cristiani spesso non aprono il loro cuore. Ecco il perché del titolo
“Invisibili Uomini persi Amici miei”… Noi cristiani abbiamo il dovere
di cambiare il mondo intorno a noi lasciando una testimonianza d’amore.
E’ incredibile quali miracoli si compiano ogni giorno grazie all’Amore e
alla preghiera. Attualmente sono titolare di una parrocchia in una
zona limitrofa a Roma, frequentata da zingari. Sempre in zona abbiamo
dato vita ad una ONLUS che ha fondato una comunità-alloggio per donne
vittime di violenza, mentre un altro gruppo ha dato vita ad una
casa-famiglia a S. Martino di Caianello, ed una terza realtà sta
nascendo per dare assistenza ai detenuti nel carcere di Rossano. Inoltre
alcuni dei laici della mia piccola comunità – che ha un ramo sia
maschile sia femminile - hanno incominciato da due anni e mezzo un
percorso verso la consacrazione. Nel Lazio i fondi a disposizione
del sociale sono pochi e molto frammentati: non si riesce a fare
granché. Certo non possiamo pensare di sostituirci al settore pubblico;
però possiamo e vogliamo dare il nostro contributo nei nostri limiti. Mi
riferisco ai limiti imposti dalle nostre stesse capacità. Non si può
volere fare tutto, anche se c’è un gran daffare…. Pensiamo di creare ad
esempio un centro in cui medici che condividono il nostro obiettivo
possano prestare gratuitamente la loro opera verso malati in situazione
di povertà; desideriamo creare punti di aggregazione per ragazzi di
queste zone disagiate, per toglierli dai pericoli della strada, per dare
loro attraverso il gioco e la socializzazione una nuova ragione di vita
e di integrazione sociale.» Ho promesso a don Tiziano di andarlo a
trovare presto, perché non si può restare indifferenti alla sua
testimonianza. Il suo libro chiarisce che cosa significhi per ciascuno
di noi – malato o sano – accettare di entrare veramente in contatto con
l’altro, lasciando da parte stereotipi e pregiudizi. Don Tiziano usa
un’espressione forte: parla di «lasciarsi incastrare in un pasticcio
d’amore» come via di redenzione per ciascuno. E, alla fine della lettura
del libro, e a maggior ragione dopo avere parlato con lui, ci si rende
conto che la vera malattia è quella del nostro cuore, che ci rende
estranei alla sofferenza, incapaci di accettarla, condividerla, darle un
senso, redimerla. Spogliamoci dunque del nostro egoismo, e apriamo i
nostri cuori alle “Stella”, alle “Feliciana-Feliz”, alle “Joy” accanto
alle quali passiamo ogni giorno come se fossero invisibili…Facciamo sì
che intorno a ciascuno di noi nasca una piccola oasi d’amore, perché la
nostra piccola goccia possa unirsi a milioni di altre gocce nel mare
d’amore di una Cristo-terapia di cui il mondo ha sempre più bisogno…
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